Dott. Andrea Pirera
Nel precedente articolo dedicato alla musica avevamo premesso che:
Il fare musica migliora, elevandone lo spirito, l’essere umano di qualunque età e condizione.
Avevamo anche cercato di rispondere alla domanda “suona bene, ma cosa vuol dire?” Ora proviamo con un’altra domanda: “suona bene, ma sarà poi vero?”
Limitandoci ai bambini e ai ragazzi, vi sono due vie per rispondere a domande di questo tipo. La prima via è quella di rivolgersi alla ricerca scientifica. Il difetto di questa via è che la scienza tratta dati quantitativi, mentre qui si esaminano aspetti qualitativi. (Purtroppo per la scienza, e fortunatamente per l’umanesimo, non vi sono unità di misura per lo spirito e per l’essenza dell’uomo).
Esistono però dei metodi di misura indiretti: per i bambini e i ragazzi, che come detto sono i soggetti di questo scritto, si può parlare di risultati scolastici, di capacità di ascolto e di comprensione, di capacità logiche, attitudini a socializzare e così via; tutte cose che si possono misurare. In questo modo non misureremo direttamente il miglioramento dell’essere umano, ma degli indici più o meno ad esso collegabili.
Per il buon nome della statistica desidero chiarire subito che le difficoltà inerenti al fare della ricerca scientifica in questo campo sono per lo più date da un limitato numero di casi studiati e dalla difficoltà di definire il gruppo di controllo, ossia la scelta dei soggetti (che non fanno musica) con cui confrontare i dati raccolti: Se devo studiare se una certa medicina faccia bene al raffreddore, prenderò un gruppo di raffreddati, ad alcuni darò la medicina, agli altri (gruppo di controllo) darò, ma senza dirglielo, acqua zuccherata (in gergo, un placebo): sarò sicuro che i due gruppi sono omogenei. Se invece parlo di musica, il fatto che il gruppo di controllo non abbia scelto di far musica introduce subito un elemento di disomogeneità.
Pur con queste limitazioni è un fatto che la ricerca scientifica – che in questi ultimi venti anni è in forte crescita sull’argomento – non lascia dubbi, dato che gli studi che abbiamo esaminato convergono tutti, e sono tanti, a sostenere l’affermazione riportata all’inizio.
La seconda via per rispondere alla domanda “sarà poi vero?” è quella delle esperienze fatte di pratica del far fare musica ai bambini e ai ragazzi. Il difetto di questa via è che i dati sono in gran parte di natura aneddotica, e che non esistono delle guide, sia pur approssimative, per i criteri da adottare nei giudizi, con la difficoltà che ne deriva di poter confrontare dati raccolti in circostanze di tempo e di luogo quanto mai eterogenee.
Pur con queste limitazioni è però un fatto che quanto riportano scuole di musica, insegnanti privati, ragazzi e parenti di tutto il mondo in gran numero tutto converge a sostenere l’affermazione riportata all’inizio.
Inserendomi nella vasta schiera di quelli che seguono la seconda via – l’esperienza – desidero riportare la mia personale esperienza con i bambini e con i ragazzi. Ho avuto la sorte – e il regalo – di essere coinvolto in due progetti, uno destinato ai bambini dall’età prescolare fino ai 7-8 anni, e un altro destinato ai ragazzi dagli 8-9 anni in su.
Il primo progetto vede ogni anno all’opera circa 450 bambini delle scuole dell’infanzia di Milano, e circa 250 delle prime classi elementari. Il metodo di insegnamento scelto esclude l’uso di strumenti (salvo qualche piccola percussione) e di musica riprodotta, utilizzando lo strumento più bello e meno costoso del mondo – la voce. Senza entrare nei particolari del metodo, basta qui dire che vi è grande attenzione all’equilibrio psico-fisico dei bambini e che le musiche proposte appartengono al repertorio popolare nazionale. Si tenta di far sgorgare la musica dall’interno, non come prodotto dall’esterno.
L’esperienza di quattro anni di lavoro permette di dare dei giudizi, alcuni dei quali ovvii e altri inattesi. I bambini apprendono tutti con notevole facilità, non solo le canzoncine ma anche i fondamenti della musica – note e ritmi. I bambini, pur nella grande diversità individuale, hanno simile capacità di interesse verso la musica. Non fanno distinzione tra interesse e gioco. In un certo senso la musica funziona da equalizzatore perfetto: conservando le caratteristiche personali li accomuna in una cosa più grande di loro, sentita come propria. Le naturali doti di irrequietezza, attenzione vagante, egocentrismo si stemperano in una buona dose di socievolezza.
L’esperienza ha inoltre messo in evidenza il fatto che per ottenere questi risultati positivi non è sufficiente che l’insegnante sia ben preparato. L’ingrediente fondamentale è l’amore. Qui parliamo di musica, ma l’ingrediente è universale, qualunque sia l’aspetto formativo ed educativo si prenda in considerazione. Il bambino che si sente amato ritrasmette l’amore all’intorno, e accetta fatiche e anche rimproveri che altrimenti rifiuterebbe.
Diamo loro amore è la miglior medicina!
Il secondo progetto, quello destinato ai ragazzi, si articola su una scuola di strumento finalizzato all’orchestra e sulla formazione di un’orchestra giovanile classica. Il progetto, attualmente al suo quarto anno di vita vede impegnati circa 90 allievi, la maggior parte dei quali ha cominciato da zero senza alcuna conoscenza musicale. 40 di loro, con diversi gradi di bravura (occorrono ben più di tre anni per formare un violinista, meno per un percussionista) formano l’orchestra che nei naturali limiti di repertorio è già stata apprezzata in varie esibizioni.
Come per il progetto precedente, anche qui l’esperienza di tre anni permette di dare dei giudizi.
Il punto chiave è l’accento preponderante sul fatto della musica d’assieme. Una buona orchestra, qualunque sia il suo livello tecnico, non è data dalla somma degli elementi che la compongono, è una squadra. Una squadra non solo è più della somma dei suoi componenti, è qualcosa che, pur fondandosi sui singoli, li trascende per uno scopo che li unisca dall’alto. Formano una squadra i tre moschettieri, con il collante “uno per tutti, tutti per uno” al servizio della regina. E’ una squadra la Chiesa, con il collante della fede e l’imperativo di utilizzare i beni ricevuti dallo Spirito per il bene comune. E’ una squadra un’orchestra, con il collante della musica, per l’edificazione, e anche il divertimento rettamente inteso, proprio e degli altri.
Quali sono le doti da acquisire per formare una squadra? A differenza del gioco del calcio, ma similmente al rugby e al volley, una vera squadra non ha né goleador né prime donne. Si è tutti alla pari, dal direttore che è sempre in azione all’uomo che magari deve suonare una sola nota. Il direttore comanda, è vero. E’, però, un “primus inter pares”; i grandi direttori d’orchestra vanno e vengono, ma il direttore stabile vive sulla base del rispetto reciproco con gli altri musicisti. Ogni componente deve saper ascoltare gli altri, ascoltare sé stesso, di loro le differenze di censo, di casta, di etnia, senza cancellarle ma riducendole a un significato meramente informativo. Essi smussano le differenze di indole, le difficoltà psicologiche e le varie forme di “disturbo” riducendole a quello che in realtà sono: differenze di comportamento.
Non è vero che gli insofferenti suonino le percussioni o quelli che amano mettersi in mostra scelgano la chitarra o il pianoforte. L’esperienza dice che, anzi, spesso i ragazzi si trovino a suonare bene degli strumenti assai lontani da quelli che istintivamente avrebbero scelto di studiare.
Ovviamente anche qui l’ingrediente dell’amore ha un ruolo determinante. Le manifestazioni dell’amore saranno diverse da quelle che dobbiamo usare con i bambini, basandosi di più sull’amicizia e la stima che sulle coccole, anche se queste non fanno mai male.
Detto in altre parole un buon componente di una squadra dovrebbe, tra l’altro:
1. saper accettare una leadership
2. saper ascoltare quando è il turno degli altri
3. saper ascoltare sé stessi con senso critico
4. saper dialogare con gli altri strumenti senza alzare la voce
5. saper intervenire quando è il proprio turno
7. saper accettare il compagno e aiutarlo se è in difficoltà
8. mettere la propria abilità al servizio del bene comune
Tutte queste doti, o meglio il cammino per ottenerle, sono ben visibili nei ragazzi che partecipano al progetto. Il processo poi si autoalimenta, perché i nuovi venuti apprendono da quelli che vi sono già, e il tutto senza che queste doti vengano loro insegnate direttamente!
Ora vi chiedo: non è forse così che vorremmo veder organizzata l’intera società umana?
Ritengo che, in fatto di miglioramento dell’essere umano, sarebbe già un risultato per il quale vale la pena di battersi e fare sacrifici.
L’influenza che il fare musica ha sullo spirito, classicamente inteso, merita un discorso separato che sarà l’oggetto di un successivo articolo.