Einstein, la macchina e l’anima
Nessuno mette in discussione l’autorità di Albert Einstein quando si parla di fisica, ossia della regina delle scienze, nonostante siano passati più di sessant’anni dalla sua morte.
Meno conosciuta è, purtroppo, l’influenza da lui esercitata come maestro di pensiero che, a differenza dalle sue idee in fatto di fisica teorica, costituisce tuttora una fonte viva di riflessione su ciò che vi è al di là della fisica stessa.
Desidero con questo breve articolo chiedere al lettore la pazienza di percorrere assieme un esempio di ciò, assicurando che non verrà usata nessuna nozione che non sia patrimonio intimo dell’essere umano.
La meccanica quantistica, qualunque cosa essa sia, non gli andava a genio. Dopo aver invano tentato di smontarla con argomentazioni strettamente scientifiche, scrive all’amico e collega Max Born una lettera nella quale afferma:
“La meccanica quantistica è degna della massima attenzione. Tuttavia una voce interna mi dice che questo non è ancora il vero Giacobbe. La teoria produce molto, tuttavia essa non ci porta minimamente più vicina al mistero del Vecchio. In ogni caso, sono convinto che Egli non giochi ai dadi”.
Ho voluto riportare la frase per intero, perché comunemente se ne ricorda solo l’ultima parte, forse perché colpisce l’attenzione giornalistica alla quale siamo abituati.
Non vi colpisce il fatto che un uomo di scienza – e che scienza! – respinga una teoria perché non vi vede alcun progresso nella ricerca del grande segreto della natura? Badate bene che Einstein non era un uomo religioso nel senso comunemente inteso del termine, e certamente non era praticante. Ma il messaggio è chiaro: al di sopra della scienza c’è sempre l’uomo.
È nota la posizione di Pensare Oltre nei confronti della cosiddetta teoria dei disturbi, tanto cara alla psichiatria applicata dei giorni nostri. Mentre Einstein in un primo tempo, come visto, tentò di combattere la meccanica quantistica sul piano matematico per poi ammetterne la validità scientifica (vedi l’affermazione “la teoria produce molto” della lettera citata), noi ci troviamo a combattere per dimostrare che la cosiddetta teoria non è tale, dato che non risponde ai criteri imposti dal metodo scientifico. Possono chiamarla come vogliono, ma non si tratta di scienza.
Ma il nostro messaggio non può essere finito qui, anche se la pregiudiziale dovrebbe limitare fortemente la discussione. La teoria, o meglio l’ipotesi dei disturbi richiede un approfondimento, al di là della validità scientifica delle sue conclusioni, validità che in futuro potrebbe essere rivista data la continua ricerca in atto.
Le macchine sono il frutto dell’uomo, e non viceversa. L’ipotesi dei disturbi presume l’esistenza di fattori cerebrali causativi, la cui esistenza sinora non è dimostrata. Ma comunque non riesco a credere che essa sia il vero Giacobbe. Essa non ci avvicina, né pensa di avvicinarsi, al grande mistero dell’essere umano. Alla sua meraviglia, alla sua illimitata diversità, all’unico valore del singolo con la sua personalità dalle mille sfaccettature.
Il cervello potrà ben essere paragonato a una macchina con la sua logica di cause ed effetti: i frutti di questa impostazione non mancano.
Ma come si può pensare a ridurre in formule quell’irripetibile ibrido di anima e macchina che è l’uomo?
ANDREA PIRERA