di Claudio Facchinelli (da Lettere, in Riforma della scuola n° 11, 1980)
A scuola, all’inizio degli anni ’50, studiavamo l’algoritmo della radice cubica, la discussione dell’equazione di secondo grado col metodo di Tartinville, la formula di Erone, con lo stesso atteggiamento con cui il bravo bambino prende l’olio di fegato di merluzzo: gli hanno detto che fa bene che fa diventare belli e grandi, e lui lo inghiotte senza discutere. Sono uscito dall’università nel ’68, troppo occupato, forse, a concludere la tesi per prestare attenzione a quello che stava succedendo a Palazzo Campana, e mi sono trovato, poco dopo, con un pezzetto di gesso in mano, di fronte alla lavagna di un’aula di liceo, a rintuzzare gli attacchi di studenti che con entusiastica ignoranza volevano mandare al rogo la matematica assieme alle altre materie selettive della cultura borghese. Il mio atteggiamento verso di loro era forse indotto da un inconsapevole sentimento di rivalsa: io avevo pagato il pedaggio di una scuola tradizionale, era giusto che ora lo pagassero i miei studenti.
Ma col passare del tempo, a mano a mano che i sacri furori del ’68 si spegnevano, e le illusioni di innovamento tramontavano, era anche sempre meno convinto di voler restituire loro i modelli culturali che avevo assunto io. E oggi, che ormai nessuno più contesta la scuola, e gli studenti sono nuovamente disposti a studiare senza batter ciglio tutto ciò che vien loro richiesto, animati in particolare nei confronti della matematica da una fiducia di tipo magico, e nuovamente si sentono sciogliere – specie da parte di qualificati incompetenti – inni incontrastati alla matematica che insegna a ragionare, alla matematica ginnastica del cervello, alla matematica che serve nella vita, in una parola i luoghi comuni più vieti con i quali si sono indoratele le pillole che si volevano far inghiottire agli studenti, proprio oggi ho la sconsolante convinzione di avere nelle mani della moneta svalutata, fuori corso, e la sensazione sempre più lucida che quel vestito, che oggi sembrerebbe ritornato di moda e sarebbe così facile tirare fuori dai bauli, sia invece logoro e sdrucito, e proprio non mi stia più addosso.
Questa è la storia della mia crisi, ma credo sia comune a moltissimi insegnanti della mia generazione, che si sono trovati a vivere una simile esperienza proprio nel momento in cui la contestazione è rientrata.
Ma proprio perché questa crisi non ha incrinato la nostra fiducia di fondo nella validità e nell’importanza della matematica credo sia nostro dovere rifiutare certe non richieste difese d’ufficio, certe alleanze di comodo, e avere l’onestà di dissociarsi da argomentazioni che presto rivelerebbero comunque tutta la loro fragilità, e a queste motivazioni generiche e fasulle cercare di sostituire ragioni più serie e fondate.
Se i nostri allievi non lo sanno, noi dobbiamo sapere che non è vero che il motivo per cui è opportuno studiare la matematica è quello della ginnastica del cervello, altrimenti si potrebbe insegnare a giocare a bridge o a scacchi: ginnastica per ginnastica è probabilmente più divertente, e possiede inoltre degli elementi di socializzazione che il cimento matematico di per sé non contiene. Come è altrettanto falso che la conoscenza di un teorema o di una legge matematica possa avere un’utilità pratica nella vita: a parte le quattro operazioni e poche altre cose, non c’è branca della matematica la cui conoscenza, al livello cui la richiediamo oggi a scuola, abbia l’utilità di una lingua straniera, o della capacità di riparare un rubinetto.
E allora si tratta di individuare le ragioni vere per cui studiare la matematica, e poi, cosa ancor più difficile, farle nostre, considerarle come fondamentali nell’impatto degli studenti con la materia, tenerle presenti come punto di riferimento nella progettazione annuale del programma da svolgere nelle classi, farle vivere in ogni singola lezione. Si tratta di trovare, per noi e per i nostri allievi, le motivazioni, la ragion sufficiente del nostro lavoro e del loro studio. E le ragioni che si possono evidenziare sono almeno di due ordini, in apparenza divergenti, di fatto complementari.
Nel suo evolversi la matematica è stata ora un mezzo di approccio e dominio del mondo fisico, uno strumento di conoscenza del reale, ora una espressione della cultura e della Weltanschauung del momento – e spesso ambedue le cose. Ed è proprio nell’approfondimento di queste due anime, che la matematica si giustifica e si impone come disciplina imprescindibile. Proporla e studiarla deve significare evidenziare, da un lato i legami culturali che la matematica ha con ogni altra espressione creativa del pensiero umano: la filosofia, la musica, l’arte figurativa, la letteratura; dall’altro lato, le strutture matematiche che esprimono in modo formale i meccanismi, per lo più inconsapevoli, delle nostre scelte e delle nostre azioni concrete.
Se la matematica è, per l’uomo di media cultura che non abbia compiuto studi scientifici, una strana entità incomprensibile e scostante, un mondo dove non si ammette discussione, ricordo di incubi dell’adolescenza, a volte oggetto di un oscuro timor reverenziale, ciò è dovuto al fatto che nessuno gli ha mai fatto capire che c’è della matematica nel lanciare una pietra o una palla, nell’impugnare un cacciavite o una maniglia, nel valutare una distanza; che nessuno gli ha mal detto che i postulati non hanno nulla di assoluto e che si può costruire una matematica in cui due più due non fa quattro. È perché il massimo di concretezza cui si è abituati fin dalle elementari consiste nel trattare di vasche da bagno ove si versa acqua con lo scarico aperto, con problemi che mi sembra nessun bambino sano di mente dovrebbe accettare di prendere in considerazione se non dopo aver proposto, tanto per cominciare, di chiudere il rubinetto o lo scarico.
Ma quanto dei programmi ministeriali risponde a queste necessità, e quante volte ci siamo preoccupati di comunicare, di far emergere un’immagine più vera della matematica mediando quei programmi con i nostri studenti? Non si tratta di mettere un cappello introduttivo al nostro corso di matematica, o di ricordarsi di raccontare che la trigonometria serve anche ai topografi per calcolare le altezze dei monti, o che n’importante applicazione della derivata è fornita dal concetto di velocità istantanea. Si tratta di assumere una mentalità diversa, in base alla quale sia più importante sapere a che cosa serve uno strumento matematico, e come e perché è nato, piuttosto che saperlo applicare a problemi artificiosi, o anche saperne dimostrare le proprietà.
E qui dobbiamo metterci in guardia da un altro pericolo, quello del fascino di una certa immagine cristallina, adamantina che la matematica ha esercitato su tutti noi, il fascino di un incontaminato mondo delle idee dominato da un glaciale rigore. È forse questa la scoperta più seducente di chi si avvicina alla matematica, ma didatticamente è certo una strada sbagliata, una strategia perdente. Il rigore deve essere – e storicamente è stato – un punto di arrivo, non di partenza. Il far salire i nostri studenti sulla torre d’avorio, ammesso che ci riescano, creerà nei più – e vorrei dire nei più sani – delle reazioni di rigetto, quelle che osserviamo appunto nella maggior parte del non matematici, e non li aiuterà a mettersi in un rapporto
sereno né corretto con la matematica.
Nell’attesa che qualcosa cambi anche dall’alto, che certi cascami matematici scompaiano definitivamente dai programmi – e si possono trovare segni di qualche mutamento se osserviamo l’evoluzione dei temi della maturità in questi ultimi anni – l’insegnante, abbandonato com’è in prima linea, senza controlli se non relativi alla sua pura presenza fisica in classe, sostanzialmente senza supporti o punti di riferimento per un aggiornamento didattico e culturale che non sia lasciato alla sua iniziativa personale, nella presente caotica libertà in cui si trova, può comunque operare qualche cauta revisione metodologica e di contenuti.
E non credo ci debba essere differenza tra quello che si può proporre in una scuola di tipo tecnico e in un liceo. In attesa di una riforma che porti ad una scuola superiore sostanzialmente unitaria, nell’attuale frantumazione degli Indirizzi il programma di matematica potrebbe fornire una preziosa occasione per ristabilire un ponte tra umanesimo e tecnologia, tra concretezza ed astrazione, non saprei se più salutare ai licealisti o ai futuri periti o ragionieri. E allora si tratta di scegliere quegli argomenti per i quali è possibile dare una giustificazione di collegamento con la realtà o di rilevanza culturale, e introdurre la trattazione di ogni nuovo argomento, di ogni nuovo strumento matematico, con il problema concreto da cui tale strumento è nato, o comunque con un problema pratico la cui soluzione richieda uno strumento nuovo, che sarà costruito pezzo per pezzo, badando più all’idea generale che al rigore. E parallelamente ancorarlo saldamente al momento storico. alla cultura, alla filosofia, all’arte del suo tempo.
E gli argomenti per cui non esista – o non riusciamo a vedere – nessuna di queste due possibilità, vanno esclusi senza pietà, cancellati dai nostri programmi, o almeno sospesi in attesa di inventare o di scoprire un buon motivo per introdurli.
Ma è più facile, per i capitoli della matematica davvero importanti, trovare una sovrabbondanza di motivazioni piuttosto che non trovarne. Pensiamo al calcolo infinitesimale, che nasce contemporaneamente nella mente di un fisico che sta cercando uno strumento più adeguato alla costruzione di una nascente teoria scientifica, e nella mente di un filosofo, quasi un gioco intellettualistico, prodotto di un mondo culturale che privilegia ed esalta la razionalità, e ci accorgeremo di quanto le due anime della matematica siano connesse ed intrecciate.
Non so se è il caso di dare a questo punto suggerimenti concreti, anche perché ritengo che gli spunti debbano nascere dalla realtà irripetibile del rapporto con la classe, in caso contrario anche l’idea più originale scade a schema dogmatico. Ma forse può essere utile, per chiarire il mio pensiero, accennare brevemente a qualche esempio del modo con cui ho cercato di lavorare con i miei studenti in questi ultimi anni.
Le funzioni goniometriche, invece di essere presentate con le loro definizioni astratte, possono essere introdotte partendo dai cartelli stradali indicanti la pendenza, ben noti agli studenti, e riflettendo con loro che c’è un modo abbastanza naturale ed abituale di valutare pendenze, cioè angoli, senza ricorrere ai gradi né ai radianti, e proprio da un’analisi del significato dell’espressione:
“pendenza 12%”, “pendenza 50%”, potrà nascere, dai loro stessi errori, oltre al concetto di tangente, anche quello di seno di un angolo, e poi si potrà arrivare a quello di coseno. Nessun libro di testo, che io sappia, parte di qui, pochi ci arrivano, e nella maggioranza del casi si contentano di richiamare, a un certo punto, il concetto noto di coefficiente angolare. Eppure, in questo modo la trigonometria acquista immediatamente uno spessore di concretezza, e viene accettata e compresa con molta maggior facilità.
Nella risoluzione dei triangoli rettangoli si potrà verificare che tale procedimento e quello stesso che compiamo valutando le distanze dal nostro naso, valutazione che è legata a una visione bioculare, che è infatti ben più difficile quando ci copriamo un occhio, e che sfrutta la costanza della distanza tra gli occhi, valore che rimane provvidenzialmente pressoché invariato fin dai primi mesi di vita.
Il concetto di derivata è spesso introdotto ricorrendo a esempi fisici, ma forse si può essere ancor più concreti riflettendo con gli studenti se sia più importante, in certi casi, come durante un’alluvione, conoscere il livello di un fiume, oppure il fatto che tale livello stia crescendo o decrescendo. In questo modo il nodo fondamentale dell’analisi infinitesimale, cioè il passaggio dallo statico al dinamico, è colto immediatamente.
Ancora come applicazione alla trigonometria, la scomposizione delle forze cui è soggetto un gancio che sorregga una mensola o un’amaca potrà confrontarsi con la scelta intuitiva tra l’utilizzo di un chiodo di acciaio piuttosto che di un tassello a espansione, per arrivare alla conclusione che anche in questo caso la matematica non fa che razionalizzare in modo rigoroso dei processi mentali che qualsiasi artigiano, qualsiasi persona di buon senso compie naturalmente I fondamenti della geometria analitica potranno essere preceduti, ancora più utilmente in una scuola in cui non si studi filosofia, da una breve presentazione di Cartesio, sottolineando la relazione esistente tra idee chiare e distinte e la notazione algebrica moderna, dovuta appunto a Cartesio; il notare poi che la stessa persona ha cercato un collegamento tra la “res cogitans” e la “res estensa”. Ed anche tra algebra e geometria, illuminerebbe il piano cartesiano di una luce più umana e lo farebbe accettare con minor difficoltà.
Il concetto di derivata potrà seguire, e non precedere, un problema pratico di massimo o minimo (la più capace scatola che si possa ricavare da un quadrato di cartone) affrontato empiricamente. E a questo punto, condotti passo passo sulla via dell’astrazione, gli studenti accetteranno di sentir parlare di ε “piccolo” a piacere, anche coloro, sempre più frequenti, che non hanno innato il gusto un po’ perverso per quella scienza ove, per dirla con Bertrand Russel, non si sa di che cosa si parla, né se ciò che si dice sia vero.