I bambini, la parola, lo psicofarmaco

  • Posted on:  Giovedì, 29 Gennaio 2015 16:03
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GIANNI TAGLIAPIETRA

Intervento al dibattito "La vivacità dei bambini non è una malattia" con Roberto Cestari, Giorgio Antonucci, Marco Quai (Pres. Cons. Prov. UD), On. Pietro Fontanini (Pres. Provincia UD), On. Renzo Tondo (Pres. Regione Friuli V-G) Martedì 25 febbraio 25 febbraio 2009, ore 18.00 Palazzo Belgrado — UDINE

Riflettere sull’infanzia è trovarsi al cuore della questione stessa della civiltà: il posto che l’infanzia ha in una data società, quel che, sotto la metafora dell’infanzia, una società dice e fa nei confronti dei bambini indica, in ogni tempo e sotto tutte le latitudini, più di ogni altra cosa, l’idea della vita, le fondazioni culturali e quindi il destino di quella società. Non per caso la civiltà mediterranea si trasforma radicalmente quando il divino, improvvisamente, si manifesta nel bambino: il mondo antico si riorganizza di colpo — duemila anni fa — intorno a un dio fattosi bambino e da quel giorno — piaccia o meno, lo si sappia o no — è questo nuovo sguardo che ci obbliga a traguardare la vita su questo pianeta. Al tal punto che questo imprescindibile orizzonte ingloba anche chi nella civiltà occidentale, oggi planetaria, avversa il cristianesimo.

La nostra civiltà sorge sulla parola, si propone e guarda sé stessa come la città (civitas) della parola, fondata sulla parola; questa la cittadinanza: il diritto di parola, il diritto che si riconosce come diritto della parola, non del sangue, non del censo, non dell’elezione naturale o soprannaturale. Una lunga, difficile marcia millenaria ha via via fatto cadere gli antichi arcaismi consegnandoci la cultura, l’arte, il diritto, la politica, la scienza come i pilastri della formazione del cittadino alla e nella parola: a questo indirizziamo tutte le nostre forze, su questo le nostre società investono immense ricchezze, a questo introduciamo molto presto, ancora bambini, i nostri figli.

Noi non ammettiamo altra dignità che non sia secondo la parola e il suo diritto. La dignità non più secondo l’antica accezione di rango sociale, quindi di gerarchia di casta; ma la dignità come insequestrabilità della libertà e della capacità di parola. Ciò significa che la nostra civiltà si regge sull’inesistenza dell’incapace, del posseduto, antico e persistente retaggio dell’istituto della schiavitù nella forma delle credenze demonistiche secondo cui forze oscure avrebbero potuto sequestrare l’intelletto, un tempo l’anima, oggi il cervello, creando il soggetto, l’assoggettato. Un tempo, la malattia dell’anima era detta ‘peccato’ e l’ordine del suo trattamento era spirituale; con l’avvento dello spirito scientifico l’anima divenne la mente e la sua possessione fu chiamata malattia mentale e l’ordine del suo trattamento divenne materiale, oggi si direbbe organico. Il medico sostituì il sacerdote sul medesimo principio del trattamento del soggetto. Oggi, questo assoggettamento e questa trattabilità hanno raggiunto i bambini, mirando a spazzare via l’infanzia, mediante il trattamento farmacologico di comportamenti ritenuti nonconformi a certi standard e classificati come malattie. Non è solo l’ansia da prestazione che prende i genitori (sempre meno e sempre meno giovani) e che, assurdamente, fa temere carenze e deficit competitivi nei figli già dall’asilo nido; non è nemmeno il cieco fideismo nei confronti della scienza, che fa credere che ci siano ricette ed esperti per ogni difficoltà della vita; e nemmeno l’invasività (pianificata, organizzata e sostenuta) dell’ideologia del farmaco che oramai ha raggiunto anche le materie base della vita come il cibo e l’acqua, di cui si parla ormai (si veda la pubblicità) come di sostanze farmacologiche. Il vero problema è in realtà il dilagante infantilismo di tutti gli attori coinvolti nelle iniziative che hanno per oggetto la trattabilità dei bambini e che suppongono rimedi magici a questioni che hanno la loro origine nella cultura e nell’educazione, àmbiti molto più complessi e articolati della facile somministrazione di un esorcismo, fosse pure sotto forma di pastiglia. L’infantilismo è quel che resta una volta negata l’infanzia: togliete l’infanzia e avrete l’infantilismo. L’infantilismo non è dei bambini, l’infanzia non è infantile: infantile è chi crede di poter togliere l’infanzia. E pertanto pure pericoloso.

Di che parliamo effettivamente quando parliamo di infanzia? Chi è l’infante? Chi è il bambino? In-fans (lat. fari, ‘pronunciare, parlare’) è non già chi non parla, ma chi non padroneggia la parola, bambino (gr. bambàino, ‘balbettare’, simile a bar-bar-òs) è chi balbetta, a-fasia è la difficoltà di parola insormontabile, in-fame è l’indicibile, famoso è ciò di cui si parla, favola è il racconto (confabulare è il conversare), favella è la parola stessa: è questione quindi del parlare (fari), ma tutto muove dall’infanzia e dal balbettìo, lì sta l’originario della parola, per ciascuno. L’infanzia è la metafora di ciò che di originario c’è nella parola, è quel che Freud indica con ‘inconscio’. L’infanzia non è una classe d’età né una fase, come vorrebbe lo psicologismo e come crede un certo luogo comune che suppone l’approdo alla padronanza della parola, la presa, il controllo sui suoi effetti: l’infanzia appartiene alla struttura stessa del parlare e risulta insuperabile. Come mostrano il sogno, il lapsus, il motto di spirito, gli atti mancati, gli effetti della parola — il senso, il sapere e la verità — non sono già dati, non sono gestibili né dirigibili. L’infanzia, insomma, non muore, come mostra in modo inaggirabile l’arte, in particolare la poesia. In altri termini, non si impara mai a parlare. Nemmeno a forza di sbagli, come vuole l’adagio popolare: imparando si sbaglia, in realtà, non si supera lo sbaglio, nemmeno a forza di sommatorie. Sbagliando non s’impara e l’esperienza non si erige sulla somma degli sbagli, come vorrebbe un altro luogo comune: l’infanzia, la nostra infanzia è sempre lì, in adiacenza ad ogni nostra parola. E rilascia gli effetti di quella lingua che non sappiamo di parlare, quell’idioma intramato di equivoco, di menzogna, di malinteso in cui non possiamo mai dire di sapere quel che diciamo. Anche se siamo convinti di voler dire o di poter dire, di dover dire o di saper dire. A volte, un semplice rossore dice al di là di quello che le parole sembrano dire. Dice altro, fra le righe: quel che si dice è sempre fra le righe e l’ascolto si effettua sempre in quel fra, in quell’intervallo. L’ascolto è un’arte, arte dell’intelligenza (inter-legere). E i bambini — lo sappiamo perché lo temiamo — ascoltano: non vorremmo mai che certe cose che diciamo fossero intese dai nostri bambini, chissà perché. Cosa c’è da temere dai bambini? Eppure sembra che in loro ritroviamo qualcosa di un rigore originario al quale è impossibile sottrarsi.

Nel discorso corrente, il bambino ha la funzione di garante dell’utopia, di detentore della verità: il bambino padrone. Ad esso fanno riferimento le facili commozioni delle anime belle, degli amanti dei bambini: coloro che, in nome dell’innocenza, del regno di questo padrone naturalmente buono, la città o la famiglia modellata sul bambino e quindi ideale, vedono il male, la violenza e la corruzione in ogni cosa e invocano, immancabilmente, la palingenesi, il fuoco purificatore da cui, come la fenice, dovrà rinascere la nuova civiltà. In nome del bambino, della purezza vilipesa, dell’innocenza offesa. Bambino cui è accostato il popolo, nella retorica politica dei puristi: il popolo ha sempre ragione, come il bambino. E sono quelli che parlano in nome di questo padrone innocente, che intendono difenderlo o vendicarlo, gli stessi che ritengono di doverlo trattare: coi guanti bianchi o con gli psicofarmaci, purché incarni quell’ideale, quel padrone ideale, nel quale si specchiano e di cui, modestamente, si fanno portavoce: voce dei senza voce, interpreti del senza parola senza possibilità di replica. Idolo che costruiscono con le loro mani e che poi gli si rivolterà contro, come mostrano bene tanto la scena politica quanto quella famigliare, in cui i madri certissime fin a poco prima di saper “gestire” il bambino, ricorrono poi agli esperti e alla magìa farmacologica per contenerne l’ingestibilità debordante. Ma se è una malattia, nessuno è responsabile.

Il bambino — come il popolo – è creduto buono perché più vicino alla natura e la natura oggi è creduta madre benefica e saggia, a differenza di quel che pensava Leopardi. Intoccabile, madre-natura, come intoccabile il bambino. Quel che è naturale è buono e quel che è buono è bianco: tutta la pubblicità si regge su questo articolo di fede, il candore, che ricade allo stesso modo sul bambino: il bambino è chiamato a garante della naturalità, quindi della bontà. Quindi, se non è buono non è naturale, vi si è introdotta la sofisticazione, l’artificio o la malattia. Le ondate di furore mediatico contro la violenza che l’uomo civilizzato perpetra sulla natura si intrecciano alle denunce contro quello che fa o potrebbe fare ai bambini. Si tratta sempre del bambino ideale: è al bambino ideale che vengono sacrificati i bambini reali. Questa è la religione del nostro tempo.

La buona notizia oggi è che iniziative culturali come la nostra sono davvero efficaci: di solito è difficile se non impossibile valutare l’impatto di un messaggio culturale, ma questa volta la misura ce l’ha data proprio chi si ritiene nostro avversario. Verso la fine dell’anno, mentre preparavamo le iniziative per il 2009, in modo del tutto insperato un angelo ci ha recapitato quanto segue:

(ANSA) - MILANO, 20 NOV - Le prescrizioni di psicofarmaci per bambini sono calate del 30% in tre anni e sono in calo anche i trattamenti per sindrome iperattività. A dirlo è Carlo Lenti, neuropsichiatra infantile (Università di Milano) secondo cui il drastico calo della prescrizione di psicofarmaci (come antidepressivi e neurolettici) in età pediatrica è dovuto soprattutto a campagne di sensibilizzazione 'che hanno demonizzato in modo acritico l'uso di questi farmaci'.

Quindi qualcosa si muove! Nessuna demonizzazione, tuttavia, come ciascuno potrà constatare stasera, ma riflessione culturale, informazione scientifica e responsabilità politica: perché da qualsiasi lato della scena si stia — genitore, amministratore pubblico, medico, insegnante ecc. — nessuno può chiamarsi fuori rispetto alle implicazioni di un intervento psichiatrizzante di massa che, avendo per oggetto i bambini, aggira le questioni reali da cui scaturisce quella rappresentazione di disagio che si vuol far passare come malattia. È una questione di civiltà.

 

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