Arriva la bomba?

  • Posted on:  Venerdì, 30 Gennaio 2015 14:25
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GIANNI TAGLIAPIETRA

Ascoltando i profeti della Sindrome da Iperattività e Disturbi dell’Attenzione, nonché le loro devote a casa e a scuola, è impossibile non pensare a Hiroshima. Mi spiego: è noto che il B-29 che il 6 agosto 1945 sganciò il primo ordigno nucleare della storia si chiamava Enola Gay. Meno noto, forse, è che così lo aveva battezzato il suo pilota, Paul Tibbets, morto un mese fa a 92 anni, e che quello era il nome della sua mamma. Mentre l’ordigno di cinque tonnellate era stato battezzato ‘Little Boy’. Quando ci fu l’esplosione il pilota trasmise: «Il bambino è nato». Una mostruosa caricatura dell’annuncio natalizio. La guerra finisce di colpo, il mondo rinasce dalle proprie ceneri, dal male viene il bene: il bambino-bomba, il bambino-catastrofe, il bambino della palingenesi. In altri termini, il bambino farmaco: minimo male necessario, male che fa bene, bene che fa male, rimedio e, insieme, veleno; o il "bambino peste". Quante volte si sente dire: "Il bambino è una peste!": la peste essendo la versione medievale del morbo purificatore, oggi si dovrebbe dire il bambino- AIDS. Sono tutte figure che dicono non già dei bambini, ma di cosa qualcuno o un’intera epoca si rappresenta di volta in volta nel bambino.

A chi assomiglia? Quando arriva un bambino, si assiste all’affollamento di esperti, di scrutatori di segni intorno alla culla per determinarne la somiglianza, come se il bambino portasse il segno o fosse egli stesso il segno della differenza, quindi dell’identità. Segno positivo o negativo, a seconda, e infatti poi si dirà: “Tuo figlio ha fatto questo e quest’altro…”, “Mio? Ma se assomiglia tutto a te e tu sei tutta/o tua madre!?”. Il male e il bene apparterrebbero alla genealogia e si trasmetterebbero genealogicamente: questa l’identità nella famiglia fondata sul sangue. Già il fatto che si cerchi una somiglianza dice che il bambino è sospetto: il bambino è infatti indizio, non segno. Per farlo uscire da questa sua neutralità deve diventare segno: segno del positivo o del negativo della differenza. La differenza va significata, per sapere a cosa ci si trova di fronte, per sapere cosa aspettarsi, per essere pronti, per essere preparati, per non avere sorprese, per farsene una ragione. La neutralità dei bambini, lo statuto di indizio e non di segno dei bambini, riecheggia nell’antico secolare dibattito sul sesso degli angeli, spesso indicato come tematica vaniloquente per pensatori in vena di perdere tempo. E invece è una delle questioni più importanti della nostra civiltà: un altro tempo si è inaugurato con l’Annunciazione, rappresentata dall’angelo (l’annuncio, più che l’annunciatore), e da quel momento i bambini hanno smesso di servire. I bambini non servono più, non sono più funzionali alla famiglia come unità di sangue, alla famiglia della predestinazione, alla famiglia del qualis pater talis filius, insomma alla famiglia pagana. La famiglia in cui “se vuoi vedere Cesare, guarda la moglie di Cesare” (la moglie assimilata a figlia e la figlia come doppio speculare del padre-marito); la famiglia di Cornelia, che ha nei Gracchi i gioielli che la illustrano, i figli eroi, figli che devono essere sacrificati, che per dimostrare di essere gioielli devono morire. Quando i bambini servivano, in omaggio alla religione del sangue le bambine venivano spesso uccise, perché inutili alla trasmissione del sangue, inutili alla guerra, inutili o, peggio, pesi per l’economia familiare in regime di penuria. Ma anche i bambini maschi, se malformati o all’apparenza non sufficientemente forti, o semplicemente illegittimi. In tutte le società precristiane il sacrificio è sempre stato sacrificio umano nella figura del bambino, il più vicino all’animale, per questo poi sostituito dall’animale.

Dopo l’Annunciazione, i bambini non sono più da sacrificare: si esce dal paganesimo, finalmente. Si esce dalla religione del villaggio (pagus), con le sue paure e le sue superstizioni, a cui i bambini venivano immolati, costruita sulla strage dei bambini, religione dell’infanticidio.

L’angelo, l’annuncio, viene dal futuro. Il futuro, l’apertura della vita, la promessa — contrariamente a quanto si crede — non sta davanti a noi: l’angelo è la prova che il futuro sta alle nostre spalle, che la vita procede dal futuro e si rivolge all’avvenire. Che non dobbiamo cercare l’apertura, anche quando ci sembra di trovarci dinanzi alla chiusura: le cose non sono mai come ci sembrano, proprio quando ci sembra che siano proprio così, anzi proprio quando ci sembra di sapere come stanno e cioè che siano finite, che i giochi siano fatti. Ecco, venendo dal futuro, i bambini dicono che le cose non sono finite, che l’infinito, di cui essi sono un indice, un indizio, è alla base della vita e, quindi, c’è sempre futuro. Occorre che ci sia futuro perché ci sia vita: questo dice ll’annunciazione, questo prova l’angelo. La vita non è una linea, non è un cerchio, non è una ruota né una routine. La vita come promessa, una promessa di cui non è dato sapere: di questo è indizio un bambino. Se è promessa, la vita non è mai già data: non si può vivere se la vita è creduta data, se si crede di conoscerla, se si crede di poterla misurare o calcolare. La vita calcolabile o misurabile sarebbe la vita finita, la vita come economia della morte, mera sopravvivenza, pura durata, attesa della fine. Chi crede questo non può che arretrare dinanzi alla promessa: vuole sapere se si tratta di bene o di male, scambia la promessa per minaccia. Mettere la promessa sotto il segno del bene o del male è credere alla vita come salvezza o dannazione: si annuncia qualcosa, arriva un angelo, sarà divino o diabolico? Porterà la salvezza o porterà la dannazione? Talune madri sono propense a vedere nel bambino la propria dannazione, quindi l’angelo del male, il diavolo; altre quello della salvezza, del riscatto sociale o familiare, del salvataggio del matrimonio o chissà che altro e vi vedranno l’angelo del bene, il bambino divino che dovrà perciò mantenersi all’altezza della promessa, il bambino già inchiodato alla croce dell’ideale materno.

Da dove vengono i bambini? Non dalla natura e nemmeno dalla provetta: i bambini non sono né naturali né artificiali. La fabbrica dei bambini sta nel cielo. Per questo i bambini sono portati dalla cicogna, come ogni persona veramente realista sa: figura della fenice immortale, animale fantastico in cui si è tentato di pensare l’impensabile, la contraddizione originaria che tiene tutte le cose, quel bene/male, quell’alto/basso, quel positivo/negativo impossibile da significare, da ripartire, da linealizzare, da “gestire” (come direbbe uno psicologo o una mamma moderna). In questo senso i bambini non sono i garanti dell’utopia, anche se tutta una mitologia li vorrebbe tali: non è che con l’arrivo di un bambino si realizzerà chissà quale regno dell’armonia, coniugale, familiare o sociale, o chissà quale liberazione o redenzione o palingenesi. O si aggiusteranno bilanci di stati in crisi di natalità o le sorti di dissestate casse pensionistiche: a questo sembrano oggi chiamati come garanti — nel dibattito di quest’epoca assurda — i bambini degli immigrati, che devono ancora nascere e già devono far tornare i conti. Questo è ancora il bambino che serve, il bambino prima dell’annunciazione, il bambino già coricato sull’ara del sacrificio.

Com’è constatabile, l’epoca è pedofilia e, quindi, pedofobia: “giù le mani dai bambini” è lo slogan di una mitologia che postula il principio dell’intoccabile nel bambino divino: intoccabile e invisibile, tanto dio quanto paria. Sul principio dell’intoccabile, tutto, tranne il bambino, è creduto toccabile, prendibile, manipolabile; sul principio dell’invisibile, tutto, tranne il bambino-dio, è creduto visibile, spettacolarizzabile; sul principio del candore, tutto, tranne il bambino, è marcio, tutto è male e malato. Di conseguenza, a confronto con il bambino divino, il bambino di casa è malato, soggetto automa da guarire, da raddrizzare, da plasmare, da dirigere. Tutto questo viene chiamato educazione, salvo trovarla impossibile. La paura del bambino, risvolto della pedofilia, si manifesta nella palese, parossistica incapacità nell’aver a che fare con i bambini: non si sa come prenderli, si dice (a proposito di intoccabilità). Già, perché bisognerebbe prenderli, per goderne, come se fossero a disposizione, come se si potesse farne ciò che si vuole (“gòditeli, finché sono piccoli…”): ecco allora che, sul principio dell’intoccabile, qualsiasi iniziativa nei loro confronti evoca la presa, la violenza, il trauma, di cui conseguentemente fare economia. Ecco la cautela, l’esitazione anche nelle cose più banali: asciugare una bambina sulla spiaggia e cambiargli le mutandine può costare un processo al nonno premuroso; accompagnare al bagno dell’asilo un bambino e aiutarlo può portare in carcere la maestra ecc. Mamme, psicologi e benpensanti sono occhiuti e vigili, per non parlare dei detenuti per le peggiori nefandezze che, tuttavia, quando si tratta di bambini, non perdonano nessuno. Chiedete a Rignano Flaminio. Le norme, le regole e i motivi che reggono i dispositivi di parola, nella famiglia, nella scuola, nella società, sono avvertiti come intollerabili imposizioni rispetto alla libertà (alias all’intoccabilità) del bambino, alla sua naturale bontà, spontaneità, innocenza. Ecco le premesse per la costruzione del tiranno. Il lassismo si mostra come l’altra faccia dell’autoritarismo: entrambe suppongono un soggetto automa, suppongono che la parola — come il telecomando — serva a far fare o, in caso contrario, non serva a nulla, si possa farne a meno. Tolto il dispositivo di parola, non resta che il gesto. L’agitazione dei bambini, che non ha mai fatto problema nei secoli, è il sintomo della vacanza della parola, una sottolineatura caricaturale del soggetto automa in assenza di dispositivo intellettuale, cioè delle norme, delle regole e dei motivi che costituiscono le condizioni del gioco, di qualsiasi gioco. E quindi quasi un’invocazione di quelle stesse regole, di quelle norme e di quei motivi del fare, quindi del vivere, che non sono sostituibili da nient’altro, non da pillole né da esperti. È venuta affermandosi l’idea che, con poche opportune tecniche e sostanze, che cose potrebbero andare da sé. Adulti impauriti, adulti che hanno abdicato al loro statuto, alla loro posizione e alla loro funzione nella parola, spesso indeboliti dal terrorismo che la mitologia medico-psicologica diffonde a piene mani per confermare il proprio potere sacerdotale e quindi il proprio business, non trovano di meglio che chiamarsi fuori e delegare, ancora una volta evocando la malattia. I bambini sono malati, si agitano e si distraggono perché posseduti da che? 

Da un virus? Da un dèmone maligno? Da un’insufficienza di dopamina, da un eccesso di adrenalina, da uno squilibrio nel chimismo del cervello? Ed ecco che noi, gli adulti, che li amiamo, gli diamo il farmaco: guardate come li amiamo, guardate come ce ne prendiamo cura, da quanti medici li portiamo, da quanti psicologi! E la scuola, guardate come ha a cuore la questione: griglie di osservazione, équipe psicopedagogiche, neuropsichiatri infantili sempre pronti, segnalazioni tempestive e crescenti, insegnanti di sostegno e, quando servono, anche gli ultimi psicofarmaci. Un’enorme invisibile istituzione psichiatrica, fra casa e scuola, per uccidere i bambini.

Il bello è che la psichiatria questa cosa, questa strana, pericolosa sollecitudine per i bambini, la conosce e l’ha già classificata nel DSM IV (2001): si chiama Sindrome di Münchhausen per procura e sarebbe a sua volta una “malattia mentale” molto pericolosa (o, meglio, poiché non si può più dire “malattia mentale”, un “disturbo psichiatrico”): “[…] la più grave forma di ipercura per la quale il bambino è sottoposto a continui e inutili accertamenti clinici e cure inopportune conseguenti alla convinzione errata e delirante del genitore che il proprio figlio sia malato. […] Quando queste persone hanno dei figli, spostano su questi la loro convinzione di malattia, arrivando a sottoporli a continui accertamenti medici e cure inutili nonché inopportune, giustificate esclusivamente dalle fantasie del genitore (quasi sempre della madre) e dalle sue conoscenze mediche. In queste situazioni il bambino tende a colludere con il genitore, simulando uno stato di malattia pur di avere garantite cure e attenzioni. In sostanza la malattia diventa per il bambino una modalità per superare la paura di essere abbandonato o rifiutato, perché il genitore continuerà ad occuparsi di lui finché presenterà i sintomi fisici, mentre la guarigione coinciderebbe con un abbandono. Nella sindrome di Münchhausen il bambino arriva a perdere la capacità di percepire correttamente le sensazioni che gli provengono dal corpo, fino a non essere più in grado di distinguere se i suoi sintomi sono reali, immaginati da lui o indotti dagli altri, con lo strutturarsi, come conseguenza, di un Sé fragile e poco differenziato. Le conseguenze più gravi di questo tipo di abuso emergono nel momento in cui il bambino cresce e diventa adolescente, entrando in una fase della vita che per definizione porta con sé una serie di problematiche legate al corpo. Il rischio che corre il ragazzo Münchhausizzato è quello di continuare a percepire il proprio corpo come malato ed evolvere verso strutture psicotiche in cui sia centrale il delirio dismorfofobico e quello ipocondriaco, oppure sviluppare l'anoressia mentale nel tentativo di distanziarsi dai messaggi invalidanti ricevuti e negando e mortificando il proprio corpo considerato fino ad allora come oggetto malato del genitore”1. Al di là del linguaggio medico-sacerdotale, già di per sé terroristico, che sembra descrivere chissà quale oggettività, quello che viene rilevato come malattia è la credenza nella malattia e la religiosa adesione alla mitologia medica, ai suoi riti e alle sue sostanze, che producono la malattia nella forma dell’avvelenamento, fino alla morte. Si tratta semplicemente di un comportamento criminale, coperto dall’ansiosa sollecitudine — socialmente approvata, quindi ricercata e ostentata — per il bambino. È la forma più diffusa di abuso sui minori che per un verso viene denunciatacome tale e, per l’altro, viene rubricata come malattia. Il paradosso psichiatrico è anche qui evidente e lo rilevano gli stessi psichiatri, talvolta: infatti, perché la sindrome sia riconosciuta è necessario che sia verificato un comportamento di tipo criminale (l’avvelenamento da farmaci del minore) e il comportamento criminale è interpretabile solo sulla base della sindrome. Perfetta circolarità. A voler insistere nella psicopatologizzazione, e quindi di nuovo nella deresponsabilizzazione, la logica infanticida chiamata “sindrome di Münchhausen per procura” diviene inconsistente sul piano legale e inafferrabile sul piano terapeutico. Quindi per un verso non perseguibile e, per l’altro, incurabile. Per forza, finché nessuno si accorge che questa che viene chiamata “malattia”, anzi sindrome, è la normalità e la normalità si vuole, per definizione, non malattia, ma cura. Appunto.

Siamo partiti accennando all’Annunciazione: ora, nel congedarci, dovremmo sentire in altro modo la portata del Natale, della novità in cui l’annuncio si compie. Per questo spero che ciascuno accoglierà come un’urgenza per la propria vita il mio augurio: buon Natale!

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