GIANNI TAGLIAPIETRA
Verona, Sala Mutilati, 13. 06.2008, ore 20.30
Com’è constatabile, l’epoca è pedofila e, quindi, pedofoba: “giù le manidai bambini” è lo slogan di una mitologia che postula il principio dell’intoccabile nel bambino divino: intoccabile e invisibile, tanto dio quanto paria. Sul principio dell’intoccabile, tutto, tranne il bambino, è creduto toccabile, prendibile, manipolabile; sul principio dell’invisibile, tutto, tranne il bambino-dio, è creduto visibile, spettacolarizzabile; sul principio del candore, tutto, tranne il bambino, è marcio, tutto è male e malato. Di conseguenza, a confronto con il bambino divino, il bambino di casa è malato, soggetto automa da guarire, da raddrizzare, da plasmare, da dirigere. Tutto questo viene chiamato educazione, salvo trovarla impossibile.
La paura del bambino, risvolto della pedofilia, si manifesta nella palese, parossistica incapacità nell’aver a che fare con i bambini: non si sa come prenderli, si dice (a proposito di intoccabilità). Già, perché bisognerebbe prenderli, per goderne, come se fossero a disposizione, come se si potesse farne ciò che si vuole (“gòditeli, finché sono piccoli…”): ecco allora che, sul principio dell’intoccabile, qualsiasi iniziativa nei loro confronti evoca la presa, la violenza, il trauma, di cui conseguentemente fare economia. Ecco la cautela, l’esitazione anche nelle cose più banali: asciugare una bambina sulla spiaggia e cambiargli le mutandine può costare un processo al nonno premuroso; accompagnare al bagno dell’asilo un bambino e aiutarlo può portare in carcere la maestra ecc. Mamme, psicologi e benpensanti sono occhiuti e vigili, per non parlare dei detenuti per le peggiori nefandezze che, tuttavia, quando si tratta di bambini, non perdonano nessuno. Chiedete a Rignano Flaminio. Le norme, le regole e i motivi che reggono i dispositivi di parola, nella famiglia, nella scuola, nella società, sono avvertiti come intollerabili imposizioni rispetto alla libertà (alias all’intoccabilità) del bambino, alla sua naturale bontà, spontaneità, innocenza. Ecco le premesse per la costruzione del tiranno. Il lassismo si mostra come l’altra faccia dell’autoritarismo: entrambe suppongono un soggetto automa, suppongono che la parola — come il telecomando — serva a far fare o, in caso contrario, non serva a nulla, si possa farne a meno. Tolto il dispositivo di parola, non resta che il gesto. L’agitazione dei bambini, che non ha mai fatto problema nei secoli, è il sintomo della vacanza della parola, una sottolineatura caricaturale del soggetto automa in assenza di dispositivo intellettuale, cioè delle norme, delle regole e dei motivi che costituisono le condizioni del gioco, di qualsiasi gioco. E quindi quasi un’invocazione di quelle stesse regole, di quelle norme e di quei motivi del fare, quindi del vivere, che non sono sostituibili da nient’altro, non da pillole né da esperti. È venuta affermandosi l’idea che, con poche opportune tecniche e sostanze, che cose potrebbero andare da sé. Adulti impauriti, adulti che hanno abdicato al loro statuto, alla loro posizione e alla loro funzione nella parola, spesso indeboliti dal terrorismo che la mitologia medico-psicologica diffonde a piene mani per confermare il proprio potere sacerdotale e quindi il proprio business, non trovano di meglio che chiamarsi fuori e delegare, ancora una volta evocando la malattia. I bambini sono malati, si agitano e si distraggono perché posseduti da che? Da un virus? Da un dèmone maligno? Da un’insufficienza di dopamina, da un eccesso di adrenalina, da uno squilibrio nel chimismo del cervello? Ed ecco che noi, gli adulti, che li amiamo, gli diamo il farmaco: guardate come li amiamo, guardate come ce ne prendiamo cura, da quanti medici li portiamo, da quanti psicologi! E la scuola, guardate come ha a cuore la questione: griglie di osservazione, équipe psicopedagogiche, neuropsichiatri infantili sempre pronti, segnalazioni tempestive e crescenti, insegnanti di sostegno e, quando servono, anche gli ultimi psicofarmaci. Un’enorme invisibile istituzione psichiatrica, fra casa e scuola, per uccidere i bambini.
Il bello è che la psichiatria questa cosa, questa strana, pericolosa sollecitudine per i bambini, la conosce e l’ha già classificata nel DSM IV (2001): si chiama Sindrome di Münchhausen per procura e sarebbe a sua volta una “malattia mentale” molto pericolosa (o, meglio, poiché non si può più dire “malattia mentale”, un “disturbo psichiatrico”): “[…] la più grave forma di ipercura per la quale il bambino è sottoposto a continui e inutili accertamenti clinici e cure inopportune conseguenti alla convinzione errata e delirante del genitore che il proprio figlio sia malato. […] Quando queste persone hanno dei figli, spostano su questi la loro convinzione di malattia, arrivando a sottoporli a continui accertamenti medici e cure inutili nonchè inopportune, giustificate esclusivamente dalle fantasie del genitore (quasi sempre della madre) e dalle sue conoscenze mediche. In queste situazioni il bambino tende a colludere con il genitore, simulando uno stato di malattia pur di avere garantite cure e attenzioni. In sostanza la malattia diventa per il bambino una modalità per superare la paura di essere abbandonato o rifiutato, perché il genitore continuerà ad occuparsi di lui finché presenterà i sintomi fisici, mentre la guarigione coinciderebbe con un abbandono. Nella sindrome di Münchhausen il bambino arriva a perdere la capacità di percepire correttamente le sensazioni che gli provengono dal corpo, fino a non essere più in grado di distinguere se i suoi sintomi sono reali, immaginati da lui o indotti dagli altri, con lo strutturarsi, come conseguenza, di un Sè fragile e poco differenziato. Le conseguenze più gravi di questo tipo di abuso emergono nel momento in cui il bambino cresce e diventa adolescente, entrando in una fase della vita che per definizione porta con sè una serie di problematiche legate al corpo. Il rischio che corre il ragazzo Münchhausizzato è quello di continuare a percepire il proprio corpo come malato ed evolvere verso strutture psicotiche in cui sia centrale il delirio dismorfofobico e quello ipocondriaco, oppure sviluppare l'anoressia mentale nel tentativo di distanziarsi dai messaggi invalidanti ricevuti e negando e mortificando il proprio corpo considerato fino ad allora come oggetto malato del genitore”1. Al di là del linguaggio medico-sacerdotale, già di per sé terroristico, che sembra descrivere chissà quale oggettività, quello che viene rilevato come malattia è la credenza nella malattia e la religiosa adesione alla mitologia medica, ai suoi riti e alle sue sostanze, che producono la malattia nella forma dell’avvelenamento, fino alla morte. Si tratta semplicemente di un comportamento criminale, coperto dall’ansiosa sollecitudine — socialmente approvata, quindi ricercata e ostentata — per il bambino. È la forma più diffusa di abuso sui minori che per un verso viene denunciata come tale e, per l’altro, viene rubricata come malattia. Il paradosso psichiatrico è anche qui evidente e lo rilevano gli stessi psichiatri, talvolta: infatti, perché la sindrome sia riconosciuta è necessario che sia verificato un comportamento di tipo criminale (l’avvelenamento da farmaci del minore) ma il comportamento criminale è interpretabile solo sulla base della sindrome. Perfetta circolarità. A voler insistere nella psicopatologizzazione, e quindi di nuovo nella deresponsabilizzazione, la logica infanticida chiamata “sindrome di Münchhausen per procura” diviene inconsistente sul piano legale e inafferrabile sul piano terapeutico. Quindi per un verso non perseguibile e, per l’altro, incurabile. Per forza, finché nessuno si accorge che questa che vienechiamata “malattia”, anzi sindrome, è la normalità e la normalità si vuole, per definizione, non malattia, ma cura. Appunto.