Dibattito 24.01.2008, ore 18.00 - Salone del Consiglio di Palazzo Antonini – Belgrado, P.za Patriarcato, 3 - UDINE
Partecipano: Bianca Cum, Regina Biondetti, Roberto Cestari, Maria Rosaria D’Oronzo
Introduzione
GIANNI TAGLIAPIETRA
Due cose sono infinite, diceva Einstein: l’universo e la stupidità umana, per quanto per il primo conservasse ancora dei dubbi.
Nell’anno scolastico in corso, un’insegnante di sostegno è stata assegnata a un bambino definito “difficile”. Difficile dacché l’anno scorso, al passaggio dalla scuola materna alle elementari, i genitori hanno cominciato a parlare apertamente di separarsi (la mamma ha sorpreso il papà in intimità con una cara amica). Parlare probabilmente non è esatto, dal momento che il papà, prendendo la palla al balzo, si è rapidamente eclissato rinunciando perfino al suo “diritto” di vedere il figlio: semplicemente non ne vuole sapere — e il bambino, nella sua “innocenza”, magari capisce che di lui il papà non vuole sapere — tutto preso nell’ovattato nido rosa dell’amore nuovo, che gli sta aprendo inusitati orizzonti di felicità.
Non solo: in questo quadro di litigi, confusione e rifiuto esplicito, al primo anno delle elementari questo bambino si ritrovò con tre (n° 3) insegnanti, tutte alle soglie della pensione e tutte molto sbrigative, il cui metodo d’insegnamento si ispirava alla celebre scuola pedagogica del “chi c’è c’è e chi non c’è si fotta”. Il bambino, che probabilmente aveva altro da pensare e in nessuna delle tre trovava quel po’ di accoglimento che innesca l’interesse anche in un porcospino, cominciò a mostrare dapprima qualche lentezza nell’apprendimento, poi qualche insofferenza alla severità, infine una netta chiusura. Le ragioni di tutto ciò, come si capisce, non erano così insondabili da richiedere il dispiegamento della geometrica potenza diagnostica dell’apparato medicopsicologico che ormai, come un carabiniere, affianca la scuola. In breve, le befane lo “segnalano ai Servizi” (quest’espressione sembra davvero un modo di indicare la Gestapo, laddove invece oggi si riferisce solo a quell’amabile istituzione che è l’équipe psicopedagogica, cui sovrintende uno psichiatra, anzi un neuropsichiatra, per giunta infantile). Verdetto: diagnosticato affetto da sindrome Adhd, deve assumere il Ritalin. Risultato: il bambino ha tachicardie, sudorazioni, non disgiunte da improvvisi accessi d’ira. Nonostante il farmaco, manifesta ormai apertamente il proprio disinteresse per quanto si svolge a lezione, giungendo fino a scagliare i propri quaderni contro l’insegnante, al grido di “Fatteli tu, i compiti!”. Il che conferma l’aggravarsi della malattia e, dunque, la necessità di integrare (o, come dice il neuropsichiatra, di “modulare”) la “terapia” con l’aggiunta un altro psicofarmaco. Tutto questo, madre consenziente e padre assente. Risultato finale: viene bocciato (in prima elementare!).
Quest’anno le befane sono andate in pensione, ci sono nuove maestre e questa insegnante di sostegno, una bella ragazza con cui, per imperscrutabili ragioni, le cose si mettono a funzionare: parlano, lavorano insieme, ridono, lui studia, ottiene buoni voti. Certo, a casa le cose invece continuano come prima, anzi peggiorano: scappa nei campi, sparisce per ore, non parla, aggredisce la mamma ecc. Ma con la sua amata insegnante si apre: e, fra le altre sue stupefacenti avventure, racconta di essere stato oggetto di certe attenzioni da parte dello zio Luca…
Allibita, la giovane insegnante non sa che fare. Parla con la pediatra che ha visto nascere il bambino e ne ha seguito la crescita, che conosce la famiglia e che mette in un dubbio l’esistenza di uno zio di nome Luca. Nel frattempo, però, presa dal panico e in conformità agli indirizzi antipedofilia, era già corsa a sporgere denuncia ai Carabinieri: il magistrato ha aperto un fascicolo, gli ambienti del bambino sono già stati “sottoposti a sorveglianza” (leggi: microspie). Tornando a parlare con la pediatra, viene a sapere che c’è, in effetti, un Luca in famiglia, ma che non si tratta di uno zio del bambino, bensì di un cugino, e precisamente il figlio della sorella della mamma. Di pochi anni maggiore e con una grave malformazione cerebrale, il nostro bambino non può frequentarlo per esplicita proibizione materna perché, quando s’incontravano, si appartavano e… chissà cosa facevano. E per evitare questo, la madre è giunta a non frequentare più la sorella. In sintesi: i cuginetti non si vedono da sei-sette mesi. L’insegnante tenta allora di correre ai ripari, tornando a parlare con il giudice minorile, ma niente da fare: la macchina è ormai in moto, non si può fermare. Anzi, le viene esplicitamente chiesto di togliersi di mezzo e di lasciar lavorare gli inquirenti. La catena della stupidità ha cominciato a saldare altri anelli, oltre la giovane maestra: prima, a scuola, le insegnanti, le psicologhe, lo psichiatra; poi il giudice e, infine, la madre, che ha finalmente trovato una facile spiegazione al comportamento del figlio (è violento perché ha subìto violenza) e non la mollerà tanto facilmente. Ma altri anelli verranno, sicuramente. Altro dolore sta per piombare su questo bambino e sulle persone intorno a lui a causa della stupidità, cioè del non ascolto.
Come può esserci ascolto se le cose sono credute esistere in quanto tali, quindi al di fuori della parola, se le parole sono prese per univoche, estratte dalla logica delle relazioni, dell’et et, della relazione disgiuntiva, non esclusiva? Insomma, senza il dubbio? Tolto il dubbio, che sospende la presunzione di sapere, ecco il sospetto: la logica volge nell’aut aut, la superficie nasconde chissà quale profondità, il bene sta sopra e il male sta sotto o viceversa. Ecco la sordità e, quindi, le costruzioni paranoiche, la dietrologia, il pettegolezzo, la ricerca del male attraverso i suoi presunti segni, male postulato, quindi già trovato: è solo questione di tempo. Sono tutti alla caccia del male, tutti animati dai migliori sentimenti e, mentre con essi cominciano a lastricare i larghi viali che conducono all’inferno, nessuno s’interroga sul male, su che cosa sia per ciascuno il male. Lo sanno già, non hanno tempo da perdere. E nessuno ha l’umiltà di accorgersi che chiama male semplicemente ciò che non capisce e che gli dà fastidio e che gli dà fastidio proprio perché non capisce. E non capisce perché non ammette di entrarci in qualche modo, perché non rientra nei suoi schemi, nei suoi pregiudizi, nella sua mentalità. Ma se si accorgesse che avere una mentalità è precisamente avere dei pregiudizi, se si ponesse nella disposizione di capire, si ritroverebbe in causa, dovrebbe ammettere di non essere estraneo, ciascuno a suo modo, al male che denuncia. Questo sarebbe ciò che un briciolo di umanità esigerebbe. Ecco perché non c’è mai umanità, in questi casi: tanti buoni sentimenti, tante esibizioni di partecipazione e di preoccupazione, gran dispiegamento di mezzi e personale, e convegni e e corsi, ma nessuna umanità. Perché l’umanità è semplicità e abita la parola. Lo psicofarmaco uccide la parola e, con essa, l’umanità. Anzi, a ben vedere, occorre che l’indifferenza in materia di umanità si sia già instaurata, indifferenza coperta dal tecnicismo, dalla delega all’«esperto», dall’ammissione vigliacca d’incompetenza, come se i bambini avessero atteso il “sapere” per nascere e crescere e gli adulti per occuparsene.
Perché la questione è questa: viene messa la malattia nel posto vacante dell’educazione da parte di adulti — i genitori, gli insegnanti, ecc. — che hanno abdicato alla loro funzione, che hanno paura dei bambini. La grande questione di quest’epoca —l’indifferenza alla strage dei bambini — procede dalla paura dei bambini, dalla pedofobia. La cui formazione reattiva, di autoprotezione e autogiustificazione, è la pedofilia: meno bambini ci sono, meno bambini nascono (e questo, si ammetterà, non riguarda i bambini, ma coloro che per qualche ragione se ne difendono, li esorcizzano; e l’Italia guida la classifica mondiale delle erodiadi) più i bambini vengono idealizzati, divinizzati, rappresentati come intoccabili. Al confronto con il bambino divino, il bambino di casa è malato, soggetto automa da guarire, da raddrizzare, da plasmare, da dirigere. Tutto questo viene chiamato “apprendimento”, “socializzazione”, “sviluppo delle abilità relazionali” ecc., nella lingua di plastica della psicologia imperversante, ha i suoi schemi, i suoi indici, le sue “griglie di osservazione” e di “valutazione”. Salvo poi trovarlo impossibile e quindi terreno di storture e correzionalità. Fino all’avvelenamento dei bambini con gli psicofarmaci. La paura del bambino, risvolto della pedofilia, traspare nella palese, parossistica incapacità nell’aver a che fare con i bambini: non si sa come prenderli, si dice (a proposito di intoccabilità). Ecco allora che, sul principio dell’intoccabile, qualsiasi iniziativa nei loro confronti evoca la presa, la violenza, il trauma, di cui conseguentemente fare economia. Ecco la cautela, l’esitazione nevrotica anche nelle cose più banali: asciugare una bambina sulla spiaggia e cambiargli le mutandine può costare un processo al nonno premuroso; accompagnare al bagno dell’asilo un bambino e aiutarlo può portare in carcere la maestra ecc. Mamme, psicologi e benpensanti sono occhiuti e vigili, per non parlare dei detenuti per le peggiori nefandezze che, tuttavia, quando si tratta di bambini, non perdonano nessuno (“E criature so’ piezz’ e core…”). Chiedete a Rignano Flaminio.
Le norme, le regole e i motivi che reggono i dispositivi di parola, nella famiglia, nella scuola, nella società, sono avvertiti come intollerabili imposizioni rispetto alla libertà (alias all’intoccabilità) del bambino, fondata su una sua presunta naturale bontà, spontaneità, innocenza. Questa costruzione immaginaria, figlia delle teorie romantiche del “buon selvaggio” e divulgata a piene mani dallo psicologismo permissivista, pone le premesse per la costruzione del tiranno. Il lassismo si mostra come l’altra faccia dell’autoritarismo: entrambe suppongono un soggetto automa, suppongono che la parola — come il telecomando — serva a far fare o, in caso contrario, non serva a nulla, si possa farne a meno. Un’idea magica di parola come padronanza e della relazione come sudditanza. Chi non ha visto genitori assoggettati, portati a spasso dai loro piccoli tiranni? Chi non ha sentito insegnanti impauriti, resi via via più insicuri dai corsi di formazione all’“affettività”, alla “relazionalità”, all’“emotività” ecc.. parlare come domatori che devono entrare nella gabbia dei leoni?
Tolto il dispositivo di parola, non resta che il gesto. Un’antica saggezza ricorda che “due cose sono impossibili: far stare fermo un bambino e far correre un vecchio”. L’agitazione dei bambini, che non ha mai fatto problema nei secoli, è oggi il sintomo della vacanza della parola, una sottolineatura caricaturale del soggetto automa in assenza di dispositivo parola, di dispositivo intellettuale, cioè delle norme, delle regole e dei motivi che costituisono le condizioni del gioco, di qualsiasi gioco. Di conseguenza quell’agitazione viene a costituire quasi un’invocazione di quelle stesse regole, di quelle norme e di quei motivi del fare, quindi del vivere, che non sono sostituibili da nient’altro, non da pillole né da esperti. È venuta affermandosi l’idea che, con poche opportune tecniche e sostanze, che cose potrebbero andare da sé. Adulti impauriti, adulti che vogliono “difendere i propri spazi”, adulti che hanno abdicato al loro statuto, alla loro posizione e alla loro funzione nella parola, spesso indeboliti dal terrorismo che la mitologia medico-psicologica diffonde a piene mani per confermare il proprio potere sacerdotale e quindi il proprio business, non trovano di meglio che chiamarsi fuori e delegare, ancora una volta evocando la malattia. I bambini sono malati, si agitano e si distraggono perché posseduti da che? Da un virus? Da un dèmone maligno? Da un’insufficienza di dopamina, da un eccesso di adrenalina, da uno squilibrio nel chimismo del cervello? Ed ecco che noi, gli adulti, che li amiamo, gli diamo il farmaco: guardate come li amiamo, guardate come ce ne prendiamo cura, da quanti medici li portiamo, da quanti psicologi! E la scuola, guardate come ha a cuore la questione: griglie di osservazione, équipe psicopedagogiche, neuropsichiatri infantili sempre pronti, segnalazioni tempestive e crescenti, insegnanti di sostegno e, quando servono, anche gli ultimi ritrovati psicofarmacologici. Un’enorme invisibile tela di ragno tessuta fra casa e scuola, una gigantesca istituzione psichiatrica senza muri, per uccidere i bambini.
Non ci sono bambini “in difficoltà” (come si dice oggi pudicamente per non dire “malati di mente”), mentre è sicuro che in difficoltà ci sono degli adulti. Anzi, a dirla con precisione, adulti che evitano la difficoltà, che è difficoltà di cultura, di arte e di invenzione, in una parola di educazione. C’è una sola difficoltà: quella di parola, che è intoglibile. Crederla negabile comporta che la nostra vita, in ogni sua piega, si rappresenti bisognosa di esperti, di manuali, di ricette, di farmaci. In una parola, di qualcuno o qualcosa che decida per noi, che ci confermi come incapaci e irresponsabili, insomma come dei bambini. E come può essere che dei bambini mettano al mondo dei bambini? E se per caso ciò accade, come può essere che se ne prendano cura?