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Dal latino disturbàre [e sturbàre], scompigliare, anche turbamento oppure infastidire.
Il termine indica stati d’animo o comportamenti temporanei relativi alle persone o all’ambiente.
E' un termine generico, senza specificità, che significa “leggera irregolarità o disordine delle funzioni organiche”,
(G. Devoto, G. C. Oli, Il Devoto – Oli, Le Monnier, Firenze, 2014).
Per esempio, le nostre nonne per indicare una giornata di malessere non ben definito dicevano: “ho un disturbo allo stomaco”.
Il termine qui cambia completamente di significato e valore, da generico e indefinito diventa sinonimo di malattia.
In questo passaggio la definizione di disturbo mentale e malattia mentale finiscono per coincidere, sebbene alcuni tra gli psichiatri stessi non concordino su questa lettura, sostenendo che si può parlare di “malattia mentale” solo quando vi siano accertabili precise cause organiche alla sua origine.
Ma, nel caso delle malattie o disturbi mentali, le ipotizzate alterazioni organiche non sono mai state scoperte né dimostrate secondo i rigorosi princìpi della scienza, come lo è invece per esempio il “disturbo”di un clamoroso mal di pancia, quando si scopre poi che il paziente ha l’appendicite acuta oppure un’occlusione intestinale o una delle altre numerose malattie che possono colpire l’apparato digerente.
In assenza assoluta di riscontri oggettivi nell’organismo, per i disturbi mentali dunque, la causa dovrebbe essere posta, o almeno ipotizzata, anziché nel corpo fuori dal nostro corpo, nell’ambiente o nella relazione con esso. Ma questo non è ciò che avviene.
Se il ragazzo si trova a disagio in un luogo o a fare un compito con molti errori ortografici, quel disagio non viene collocato nel contesto umano e relazionale in cui emerge: gruppo, scuola, famiglia, la causa sarà ricercata nel corpo, anche se mai si troverà il preciso punto del malanno specifico.
Se per esempio un bambino ha una risposta inadeguata all’ambiente, si dice che c’è un “disturbo mentale” per dire semplicemente che non sapendo dove andare a cercare la lesione, la definizione mentale è la panacea del tutto e niente, e quindi “funziona” come credenza in voga.
Il più illustre testo di psichiatria è il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM): il titolo stesso ci parla di “disturbi” e non di “malattie”. Il testo viene redatto negli USA e si intitola Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition, DSM-5, Edit byAmerican Psychiatric Associaton, 2013; ed. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014).
Quindi in lingua inglese la parola disorder è disordine, che inevitabilmente ci porta alla conclusione che, secondo i sostenitori dei disturbi, vi sarebbe un preciso ordine mentale preesistente perfino alla nascita di ciascuno. Dunque l’educazione sarebbe ben poco importante, e coloro che si allontanano da questo ordine (stabilito però da teorie pedagogiche e cognitive che cambiano a seconda delle epoche), sarebbero appunto affetti da un disordine.
Di che cosa si tratterebbe allora?
Si tratta pertanto di un allontanamento dallo standard stabilito sulla media generale della popolazione in relazione a uno specifico comportamento o abilità.
Nel DSM viene esposto un lungo elenco di definizioni per ciascun “disturbo” dichiarato “mentale”: dall’iperattività e deficit d’attenzione, alla depressione, ai disturbi specifici dell’apprendimento.
Anche per questi ultimi disturbi specifici dell’apprendimento: dislessia, discalculia, disortografia, disgrafia, seppur oggi ridefinite neurodiversità, (che presupporrebbe una qualche diversità neurologica, mai riscontrata, nei bambini con questi disturbi), molti giornalisti ed esperti affermano che si tratterebbe di vere e proprie patologie.
Per poter definire qualcosa una “patologia” o una neurodiversità occorrerebbe dimostrarne la specifica origine organica (la lesione o alterazione), e la diagnosi dovrebbe avvenire dimostrando l’esistenza della lesione/alterazione, indipendentemente da ogni e qualsiasi comportamento o difficoltà esistente, cioè dai sintomi: leggere male, scrivere lettere tutte storte ecc.
Qui, nel caso dei disturbi, il “sintomo” (ciò che si manifesta o appare, la difficoltà, ciò che la persona fa o dice), “diviene automaticamente la patologia”.
Ma i “sintomi” non sono “patologie”!
Ad esempio, spesso, specie in fase iniziale, i tumori sono “asintomatici” (significa che non manifestano nessun sintomo), ma con un esame medico e analisi specifiche si può scoprire la loro esistenza e collocazione.
Uno stato di confusione transitorio e difficoltà linguistica in un adulto possono essere i sintomi dell’insorgere di un problema neurologico o dell’apparato cardiocircolatorio o altro ancora.
In questo caso la persona interessata potrebbe scoprire, tramite la ricerca e l’individuazione della lesione, una vera e propria patologia.
Ma la confusione momentanea potrebbe anche essere l’effetto di un’eccessiva stanchezza perché la persona ha avuto troppo da fare e tempo insufficiente di riposo.
In tal caso il medico non troverà nessuna lesione, dirà al paziente che è in salute e gli consiglierà di modificare il suo stile di vita.
Un sintomo, qualsiasi sintomo, senza un rapporto con un organo, tessuto o gruppo cellulare lesionato, è solo un indizio, un segnale che ci indica che qualcosa va cambiato in quel che stiamo facendo e vivendo.
Ciò che non è scientificamente dimostrato secondo i princìpi basilari della medicina, è molto importante che non sia diagnosticato e trattato in modo medico.
Per un disagio che non ha riscontri verificabili dalla medicina è indispensabile che si trovino strategie educative e didattiche che salvaguardino i tempi e i modi dell’infanzia.
Per Approfondire: Linee guida scientifico-culturali >>