Pubblicato Venerdì, 16 Novembre 2012
Roma - Dalla scuola deve ripartire un movimento culturale che ridia alla pedagogia il ruolo che le spetta, perché i Disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa) devono essere affrontati da un punto di vista pedagogico e non sanitario. Questo il messaggio lanciato al XV convegno nazionale dedicato al tema delle ‘Dislessie’. “I disturbi dell’apprendimento - ha detto Federico Bianchi di Castelbianco direttore dell’IdO - hanno origini diverse e vanno compensati con i progetti pedagogici. I Dsa invece hanno un’origine psicologica, mentre l’ipotesi genetica non è stata mai dimostrata e semmai lo fosse riguarderebbe una percentuale talmente minima, come per tutte le malattie rare, da non poter costituire un valido riferimento”. Quindi, per lo psicoterapeuta, “dire che la dislessia abbia un’origine genetica solo perché sono aumentate le segnalazioni sarebbe come affermare che anche l’obesità, l’anoressia e la bulimia abbiamo un’origine genetica, se pensiamo - ha precisato - che si tratti di un problema che riguarda il 30% degli adolescenti”.
Castelbianco ha ricordato che il numero dei dislessici “è aumentato a dismisura essendo aumentati gli anticipatari, ovvero i bambini che vanno in prima elementare a 5 anni. Soggetti che hanno maggiore difficoltà scolastiche non per un problema intellettivo ma perché non sono maturi, perché la richiesta di prestazioni avviene in un momento inadeguato alla loro età”.
Anche per la responsabile del Servizio Terapie dell’IdO, Magda Di Renzo, il dato degli anticipatari “conferma che l’apprendimento è un atto complesso e che bisogna capire quando il bambino è pronto, poiché nel passaggio dalla scuola materna a quella elementare c’è una forte aspettativa sociale. Un’attesa che grava sulle insegnati, che a loro volta devono apparire come produttive e subito, invece che ricordare l’importanza del tempo nell’educazione”.
La psicoterapeuta ha infine osservato che “una descrizione unica del minore, che prescinda dalla dimensione emotiva, penalizza sia il bambino che ha grandi potenzialità che quello che ne ha meno”. I bambini “sono spaventati di non essere intelligenti, vivono l’incapacità come una disabilità intellettiva. Quello che non va è il marchio di disabilità che rimane immodificabile quando invece non è così, al contrario - ha concluso Di Renzo - il loro miglioramento è visibile”.
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